Binari paralleli

Raffaella Ricci
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Quando è squillato il cellulare ho risposto senza guardare.

– Come stai? – hai domandato.

La tua voce l’ho subito riconosciuta.

Sono rimasta in silenzio per alcuni secondi. L’ultima volta che ci siamo visti, ormai sei anni fa, mi hai detto:

– Questo è il mio Karma. Ho un debito con il destino, qualcosa che devo imparare. Devo accettarlo. So che potrei amarti se solo la mia testa e il mio cuore non fossero così inebetiti e so che ti amerò in un’altra vita.

Eri appena tornato dall’India. Pensai di non essere riuscita a salvarti.

In tutti questi anni ho lavorato su me stessa per accettare la nostra “non storia” d’amore. In fondo cosa è stata se non uno schizzo su un foglio subito accartocciato e gettato via.

Ho lavorato anche sul mio spirito da crocerossina. Ho trovato il mio punto di equilibrio, ma è giusto un punto da cui rischio di scivolare da un momento all’altro. Ad ogni modo ho smesso di voler salvare gli altri.

– Sto bene – ho detto, – sono tornata nella mia città, tra le strade che conosco da una vita e la gente che parla come me. Non sono fatta per esplorare il mondo e non ho lo spirito d’avventura come te.

Hai riso, in un modo strano, un riso sommesso, soffocato, con qualcosa di ironico dentro.

– Nonostante il mio spirito d’avventura – hai detto, – ho deciso di fermarmi per trovare un po’ di quiete.

– E la tua carriera?

– Non mi importa più.

La tua voce è diventata improvvisamente roca.

– Quella donna mi ha tolto tutto, anche la mia identità.

Ho ricordato tutte le volte che me ne parlavi quando non riuscivi ancora a comprendere cosa ti stesse accadendo, quando urlavi sotto il balcone di quella che era stata la tua casa e non sapevi dove andare. Vagavi solo nella notte e piangevi appoggiato a un muro. L’indomani arrivavi in ufficio con la faccia e i vestiti stravolti.

– Ti prego – ho detto, – parliamo d’altro.

– Ok, parliamo d’altro.

Hai atteso alcuni secondi come a voler cercare le parole. Sono diventata impaziente. Poi come un petardo lanciato all’improvviso hai detto:

– Ho chiesto il trasferimento nella tua stessa sede.

– Perché?

– Non lo so. Ho agito d’impulso. È da folli sperare di riprendere la nostra storia lì dove si è interrotta?

Ho rivissuto quel bacio che ci siamo scambiati una notte calda e umida sui Navigli.

Fu un bacio come quello di due adolescenti la prima volta. Quasi avevi paura. Mi sfiorasti le labbra come se cercassi da bere, chiudesti gli occhi e ti abbandonasti.

Anch’io chiusi gli occhi e ti sfiorai i capelli.

Mi sembrò di accarezzare uno di quei cuccioli d’istrice che, quand’ero bambina, mio padre portava a casa rientrando dai campi. Poi d’un tratto ti ritraesti.

– Scusami – dicesti, – sto sbagliando.

Ti sarei rimasta accanto se solo avessi voluto e invece facesti quel discorso strano sulla morte e sulla rinascita, su quando ci saremmo incontrati in un altro tempo e in un altro luogo. – Ma non so se tu mi riconoscerai o dovremo ancora aspettare – dicesti. Ebbi paura della tua follia.

– Sono ancora in tempo?

Non ho risposto.

– Ho capito – hai detto a voce bassa.

– No. Non credo. Il nostro è un racconto non scritto, una partitura incompiuta e ha la potenza delle storie che sarebbero potute essere e non sono state.

– Le storie incompiute ti restano incollate addosso per un disegno difficile da interpretare e mantengono nel tempo un contatto elettivo tra persone, quasi a non voler rischiare di archiviare un periodo della nostra vita a cui attribuiamo forti significati.

– Per questo sono pericolose … Sono sposata e aspetto un bambino.

– Non mi hai aspettato!

– Non me lo hai chiesto. Hai detto che ci saremmo incontrati in un’altra vita e io a differenza tua so che la vita che posso dare per certa è solo questa. Forse il nostro Karma è quello di essere binari paralleli che non convergono mai.

Il respiro ha iniziato a diventare faticoso, mi sono seduta su una sedia e ho detto:

– Fai ancora in tempo a far revocare il tuo trasferimento?

Dopo non so quanto tempo hai sussurrato:

– Perdonami.

Il silenzio è diventato solido come un macigno

– Mi dispiace averti turbata, non ne ho il diritto.

E hai chiuso.

Sono rimasta piegata su me stessa a guardare il parquet di rovere della mia nuova casa, il tappeto sotto il tavolo, i mobili bianchi appena comprati, le tende alle finestre e i quadri alle pareti. Ho respirato profondamente mentre, con una mano, accarezzavo la pancia.

Al polso, il braccialetto di giada che mi hai portato da uno dei tuoi innumerevoli viaggi in Oriente.

sabato 8 Giugno 2019

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